Le negoziazioni ad alta frequenza, il fallimento del neoliberismo e l’umanità nova

Riversare sul mercato una quantità ingestibile di informazioni, immettendo, e contemporaneamente cancellando, migliaia di ordini, al fine di rallentare gli altri operatori e causare variazioni nei prezzi, da sfruttare per trarne profitto in lassi di tempo infinitesimali. Quote stuffing si chiama, ed è una delle principali strategie utilizzate da chi pratica il trading ad alta frequenza, cioè da chi opera sui mercati finanziari per mezzo di bot governati da algoritmi, agendo in intervalli di tempo brevissimi e, spesso, sfruttando la velocità che caratterizza questo tipo di operazioni per creare artificialmente le condizioni di mercato che consentono a un determinato operatore di trarre profitto.
Secondo un articolo pubblicato da il Sole 24 ore il 17 marzo del 2017, attualmente ben il 60% dei volumi sono scambiati sui mercati da algoritmi. Una pratica che tenderebbe a spezzare il legame tra le quotazioni e quelli che, tradizionalmente, sono intesi come i fondamentali dell’economia, cioè i bilanci aziendali, i flussi di cassa o, se parliamo dei titoli di stato, l’inflazione, il tasso di disoccupazione o la quota di indebitamento in rapporto al Pil.
L’intervallo temporale minimo che caratterizza le strategie dei trader ad alta frequenza – si legge in uno studio pubblicato dalla Banca d’Italia nel settembre del 2013 – può spingere tali operatori ad ignorare quasi del tutto i fondamentali economici e le prospettive di crescita delle aziende, dando massimo rilievo ai movimenti di brevissimo periodo e alle possibilità di arbitraggio. Dato l’elevato volume di scambi di pertinenza dell’alta frequenza, ciò determina modifiche nel comportamento dell’intero mercato, influenzando, di conseguenza, le decisioni della totalità dei partecipanti al mercato stesso.
In altri termini, sono le strategie messe in atto da coloro che praticano le negoziazioni ad alta frequenza a indirizzare il mercato, divenendone i nuovi fondamentali, del tutto slegati dall’economia reale, ma improntati a considerazioni riguardanti lassi di tempo infinitesimali, che trascurano del tutto analisi che prendono in considerazione il lungo periodo.
L’operatore tradizionale, sia per trarre profitto, sia, nel peggiore dei casi, per non avere perdite, o per limitarle al massimo, non deve più intuire quali saranno le performance di un’azienda, o di uno stato, per indirizzare la propria attività; deve poter prevedere quale sarà il comportamento dei trader ad alta frequenza. Non è un compito semplice, si tratta di prevedere comportamenti prettamente speculativi che sfruttano variazioni di prezzo e intervalli temporali molto piccoli.
In ambito economico e accademico il dibattito sugli effetti delle negoziazioni ad alta frequenza è abbastanza vivace, ma fatica a uscire dalle stanze degli addetti ai lavori. Molti ne decantano gli effetti positivi, rivolgendo lo sguardo soprattutto a una maggiore integrazione tra mercati che queste pratiche favoriscono e alla maggiore liquidità che garantiscono. Altri, invece, mettono soprattutto in evidenza i i rischi che questo tipo di attività può comportare, descrivendo come possa alterare i mercati e creare posizioni vantaggiose solo per alcuni operatori. Condizioni che rendono necessaria una regolamentazione.
Nell’ottobre 2016 la Banca centrale europea è intervenuta sull’argomento: è necessario un approccio graduale alla regolamentazione delle negoziazioni ad alta frequenza – sostiene la Bce – poiché una regolamentazione stringente su questi modi di operare potrebbe avere un impatto negativo sulla liquidità dei mercati e sulla loro efficienza.
Secondo Alfonso Puorro – autore dello studio pubblicato nel 2013 dalla Banca d’Italia – però, non deve essere considerata esclusivamente l’efficienza dei mercati, ma l’impatto del trading ad alta frequenza sul benessere complessivo di tutti i partecipanti al mercato e i rischi sistemici che potrebbero derivare da tali pratiche. In Cina, per esempio, le autorità sono fermamente convinte che il crollo delle borse del 2015 sia dovuto soprattutto a questo modo di operare.
Gli algoritmi che regolano le diverse strategie in base alle quali i bot operano, sono improntati a un’unica logica: massimizzare i profitti in lassi di tempo brevissimi, a prescindere dall’andamento di lungo periodo dell’economia nel suo complesso e da considerazioni e aspettative su di esso.
Sono l’espressione ultima e più moderna di un’ideologia, quella liberale più radicale, che anima il capitalismo dalle sue origini; un’utopia secondo la quale, ciascuno, facendo il proprio interesse, e, in ambito economico, puntando a massimizzare i propri profitti, opera nel miglior modo all’interno della società, contribuendo a migliorarla, a renderla più libera e ad aumentarne il benessere complessivo.
Un’utopia naufragata nel 2008, con il collasso dei mercati finanziari e delle istituzioni bancarie, eventi che hanno innescato la crisi economica ancora oggi in corso.
All’epoca, siamo nell’ottobre del 2008, Alan Greenspan, che era stato presidente della Federal reserve (la banca centrale degli Stati uniti) fino al 2006 – ascoltato dalla Commissione per la vigilanza e le riforme istituzionali della Camera dei rappresentanti, che indagava sugli eventi che avevano condotto alla crisi – disse di essere scioccato, perché, per evitare la crisi, si era affidato a un’ideologia (quella neoliberista) nella quale aveva riscontrato degli errori, errori che non gli avevano permesso di evitare il crollo dei mercati.
Per comprendere appieno il fallimento del neoliberismo, forse è utile soffermarsi sulla sua dimensione utopica, perché solo così si può comprendere appieno questa ideologia ed evidenziare i suoi effetti devastanti.
I neoliberisti credono che i mercati, lasciati liberi di operare senza vincoli e regolamentazioni, in un contesto in cui tutti puntano a massimizzare i propri profitti individuali, siano in grado di garantire a ogni individuo un lavoro, un reddito, una casa e ogni altro diritto che invece il welfare state non era stato in grado di assicurare. Allo stesso modo i mercati sono in grado di garantire a tutti la parità delle condizioni di partenza, tanto da far credere ai neoliberisti che se qualcuno è povero, lo è per sua esclusiva responsabilità, e non a causa di un’organizzazione sociale che premia chi detiene le ricchezze.
Pochi lo hanno sottolineato, ma la crisi che ha cominciato a manifestarsi sul finire del 2007, innescatasi sul mercato immobiliare, ha evidenziato proprio il fallimento di questa utopia: i mercati, lasciati liberi di agire, in un contesto in cui tutti puntano a massimizzare i propri profitti, non sono affatto in grado di garantire a tutti gli individui un’abitazione, bensì crollano, lasciando molti individui senza casa, senza lavoro e senza reddito. Quello che è crollato nel 2008 è il tentativo di razionalizzare l’intera società, e le sue strutture di welfare, in base al principio della massimizzazione dei profitti privati; un principio che si è rivelato incapace di garantire a tutti una casa e la stabilità del sistema economico.
Raghuram Rajan, ex governatore della Banca centrale indiana, è stato uno dei pochi, quando era docente a Chicago, ad aver previsto la crisi economica. Nel descrivere quei giorni, pronuncia una frase significativa: la cosa che più mi ha stupito – dice – è che tutti, pur rendendoci conto della situazione, continuavamo a fare quello che ci sembrava più logico fare in quel contesto, e ciò ha condotto al crollo. Tutti, pur vedendo il crack sempre più vicino, continuarono ad applicare la logica neoliberista: massimizzare i profitti privati, senza preoccuparsi delle conseguenze. Fu quella logica che condusse al collasso.
Oggi, quell’ideologia, portata alle sue estreme conseguenze, continua a indirizzare i mercati finanziari per mezzo degli algoritmi che praticano le negoziazioni ad alta frequenza, ma i regolatori, come negli anni precedenti al 2007, sembrano non intuirne i rischi.
Secondo Giovanni Arrighi, la finanziarizzazione dell’economia non sarebbe un tratto peculiare della nostra epoca, ma un fenomeno che, nel corso della storia, ha segnalato che il centro intorno al quale gravita un’economia-mondo si sta spostando da un luogo a un altro: l’ascesa della Cina nell’ultimo quarantennio sarebbe un’ulteriore prova che un evento simile è in atto.
C’è però una grande differenza tra l’epoca contemporanea e i periodi storici osservati da Arrighi: oggi l’economia-mondo non è legata a una determinata area geografica che ha legami, e rapporti economici, più o meno stabili con altre aree geografiche, le quali rappresentano altre economie-mondo. Oggi l’economia-mondo tende a racchiudere in un’unica economia l’intero pianeta e le crisi si propagano facilmente da un angolo all’altro del globo, minando alla base l’organizzazione economica complessiva del pianeta.
Che ne resterebbe dell’economia cinese, o asiatica, se in Occidente nessuno potesse più acquistare computer, smartphone, acciaio o altri beni che trainano quelle economie? In un contesto di crisi globale, la Cina riuscirebbe a estendere il proprio dominio economico all’Occidente, entrando in possesso delle sue infrastrutture e delle sue attività produttive, o sarebbe costretta a rinchiudersi in un’economia-mondo d’area, più piccola rispetto all’attuale dimensione globale del sistema economico?
Probabilmente fenomeni come quello del trading ad alta frequenza segnalano che il capitalismo è entrato nella sua fase matura e stagnante. Una fase nella quale l’unico obiettivo del sistema economico nel suo complesso è quello di garantire l’accrescimento dei profitti di pochi, a scapito del benessere e della libertà di milioni di individui. Una fase che forse prelude a crolli sempre più frequenti e vicini nel tempo, in cui i consumi, alimentati solo grazie al ricorso al debito, da elemento di stabilità divengono elemento di incertezza sistemica.
In un ottica marxiana parrebbe che la crisi economica abbia messo sotto i riflettori i rapporti sociali esistenti, che potrebbero essere entrati in contraddizione con le forze produttive: in un momento in cui le nuove tecnologie e la razionalizzazione della produzione permettono di garantire a ciascun individuo un livello di benessere e un soddisfacimento dei bisogni che non avrebbe precedenti, questo obiettivo non viene perseguito per garantire privilegi a una classe che rappresenta una minima parte della popolazione mondiale.
Il capitalismo sembra aver perso la spinta propulsiva, rivoluzionaria e innovatrice, che lo ha caratterizzato per circa due secoli. In una fase in cui sarebbe possibile superare molti aspetti del lavoro salariato e organizzare la produzione in base a principi che puntano a produrre il necessario, a un uso sostenibile delle risorse e alla tutela ambientale, ciò è reso impossibile dall’incancrenirsi di tale sistema, ormai vecchio, incapace di guidare lo sviluppo umano. Un sistema animato da ideologie e utopie che garantiscono solo il benessere di pochi, a scapito del benessere e della libertà di miliardi di individui. Un sistema insostenibile anche dal punto di vista ambientale, che mette a repentaglio l’esistenza del pianeta stesso, almeno come lo conosciamo.
Un sistema da superare per via rivoluzionaria. E forse l’Europa, in cui le classi subalterne sono animate da millenni da una tradizione improntata alla rivendicazione di diritti sociali e civili, può essere teatro di tale rivoluzione.
Perché l’umanità nova non può prescindere dalla memoria di classe incarnata in secoli di lotte. Ovviamente se questa memoria saprà mescolarsi, fondersi, contaminarsi, con altre memorie che animano le classi subalterne del resto del pianeta.
“….un’ideologia, quella liberale più radicale….”
Il mascheramento del secolo. Un sistema nel quale un manipolo di grassatori si mangia tutto e chi lavora non ha niente: non riesco ad immaginare nulla di più distante dal concetto di “libertà”.
Alle volte basta saper scegliere le parole per affrontare i problemi: questi signori pretendono di essere chiamati “liberal”. Io propongo di denominarli “feudatari”. Sarebbe un passo avanti considerevole.
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